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I fantasmi dell’Opera
Testo del comunicato
Nel mondo della lirica italiana sembra si aggirino fantasmi: quattro dei maggiori teatri (Scala, Opera di Roma, Accademia di Santa Cecilia, Teatri del Maggio Musicale Fiorentino) hanno lasciato l’Anfols (l’associazione delle 14 fondazioni lirico sinfoniche), di cui è stato appena nominato presidente Salvatore Tutino, musicista di rango, noto in Italia e all’estero, ma con una non grande fama di manager dato che al Teatro Comunale di Bologna, di cui è sovrintendente, gran parte del personale si è espresso, di recente, contro di lui. Tre delle 14 fondazioni (San Carlo di Napoli, Arena di Verona, Carlo Felice di Genova) sono commissariate. Sembra stia scivolando verso il commissariamento anche il Comunale di Bologna. Da alcuni giorni si parla di commissariamento pure per il Teatro dell’Opera di Roma.
La vicenda del teatro della Capitale è difficilmente comprensibile. Dopo una lunga fase di disavanzi e aumenti del debito, negli ultimi dieci anni, sotto la guida dell’attuale sovrintendente Ernani, si è tornati non solo al pareggio, ma anche ad attivi di bilancio, tanto che il “caso” dell’Opera di Roma è finito sulle pagine di quotidiani economico-finanziari quali il Sole 24Ore, Italia Oggi e Milano Finanza, oltre che di alcuni tra i principali giornali stranieri. Il 2009, invece, presenta un preventivo in disavanzo (non è chiaro se si tratti di 5 o 10 milioni di euro) a ragione, come per le altre fondazioni liriche, delle riduzioni apportate al Fondo unico per lo spettacolo (Fus). Ad esempio, per tentare di fare fronte alla situazione, a Bologna sono stati appena eliminati due allestimenti e il Maggio fiorentino realizzerà un programma quasi dimezzato rispetto a quanto annunciato.
Per l’Opera di Roma, il 2009 avrebbe dovuto essere la stagione della svolta con un cartellone da fare invidia ai maggiori teatri europei. Difficile pensare che, cambiando cavallo e carrozza all’inizio dell’anno, la situazione possa migliorare. Appare verosimile che chiunque si metterà alla guida del teatro dovrà apportare, come peraltro già effettuato da altre fondazioni liriche, aggiustamenti al programma annunciato, salvaguardando gli spettacoli di maggiore importanza e quelli in abbonamento. Indubbiamente, se ci dovrà essere un cambiamento, l’esperienza di chi ha gestito l’istituzione negli ultimi dieci anni, risanandola, sarà di grande aiuto a un eventuale successore. Non è questa la sede per approfondire le ragioni per cui i fantasmi che si aggirano sui teatri italiani d’opera, non si agitino, almeno con la stessa virulenza, su quelli di altri paesi. Le determinanti sono state studiate in sede scientifica. Fa comunque tristezza rilevare che “la musa bizzarra ed altera” (così è stata chiamata l’Opera lirica da uno studioso tedesco), nata in Italia e che permesso alla nostra lingua di essere esportata in tutto il mondo, stia languendo e rischi di morire proprio nella Penisola che l’ha partorita.
Ci sono rimedi. Il Fus finanzia circa 400 soggetti. Soltanto nel settore musicale, oltre alle 14 fondazioni lirico-sinfoniche e ai 28 “teatri di tradizione”, supporta 160 associazioni filarmoniche. In Francia i soggetti coinvolti sono meno della metà. In Germania, il sostegno è responsabilità dei Länder e dei Comuni che fanno a gara a chi ha i programmi migliori. In Austria un fondo analogo dedicato, però, solo ai quattro teatri d’opera di Vienna e al Festival di Salisburgo ha una dotazione pari a quattro volte quella del Fus. Inoltre, lo stesso Fus potrebbe essere integrato dai residui passivi che, da lustri, si registrano in altre aree della gestione dei beni culturali ed ambientali, riallocando le risorse da chi rischia l’interruzione delle attività a chi ha invece poca capacità di spesa. Occorre, poi, premiare l’efficienza, non ripartendo a pioggia i finanziamenti o ancora peggio incoraggiando chi spende in modo poco accorto.
Anche con le regole in vigore, ci sono fondazioni che producono molto e bene e che sono sostanzialmente sane sotto il profilo finanziario, mentre altre fanno acqua. A Milano e Torino ci sono importanti soci privati. A Roma, il Comune sostiene molto il teatro e i privati vi sono entrati a ragione dell’ampiezza e della qualità della produzione. Il Teatro Massimo di Palermo, nel 2002 aveva un disavanzo di 13 milioni d’euro e uno stock di debito di 26 milioni d’euro: il debito è stato ripianato tramite un mutuo da rimborsare su un periodo di 20 anni. Una politica artistica basata su co-produzioni con i maggiori teatri italiani ed esteri e su una presentazione di “prime” assolute per l’Italia, nonché una ferrea economia di gestione e un aumento di rappresentazioni e di presenze, ha riportato in utile netto i consuntivi degli ultimi tre esercizi.
La “premialità” per chi gestisce bene deve essere accompagnata da un cartellone nazionale con forti risparmi negli allestimenti e nei cachet degli artisti, evitando che ciascun teatro miri a mini-festival. Gli allestimenti (scene e costumi) incidono sul 5 per cento della spesa, ma gli artisti (cantanti e direttori d’orchestra) accetterebbero cachet più bassi se, come avviene in gran parte del mondo, venissero scritturati non per cinque repliche di “Tosca”, ma per 30 in vari teatri di una Penisola il cui pubblico, tranne pochi appassionati, non viaggia da un teatro all’altro. Per l’Italia, dove 400 anni fa è nato il teatro in musica, perdere la lirica vorrebbe dire rinunciare a una parte importante del patrimonio nazionale.
Guardando a più lungo raggio, diverse sono le soluzioni possibili. Innanzitutto, una revisione drastica della normativa sulle fondazione che comporti un ripensamento del loro status giuridico e una riduzione del loro numero (eliminandone un paio o per eccessiva contiguità territoriale con altre o perché hanno masse artistiche- orchestra, coro- qualitativamente al di sotto della media di buoni teatri europei). Inoltre andrebbe imposta per legge una gestione delle fondazioni restanti basata sul binomio cooperazione-competitizione. Cooperazione significa dare vita a un cartellone nazionale con forti risparmi negli allestimenti e nei cachet degli artisti ed evitare che ciascuna fondazione miri a stagioni simili a mini-festival autoreferenziali. Competizione vuole dire premiare le fondazioni che, in base ai risultati di biglietteria e alle valutazioni tecniche di una commissione internazionale, sappiano coniugare consuntivi in pareggio ed alta qualità. Infine, nell’ambito del federalismo, andrebbero trasferiti alle Regioni “i teatri di tradizione”, i “lirici sperimentali”, le “scuola d’opera” e simili. In questo modo toccherebbe agli eletti regionali decidere se dare priorità al patrimonio lirico nazionale o alle fiere del carciofo gigante. E i loro elettori li giudicherebbero.
(fonte dati: IL VELINO CULTURA)