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Parere dell'Ufficio Legislativo del MiBACT: "Castellamare di Stabia (Napoli), località Collina di Varano. Istanze del Comune e di privati finalizzate a rideterminare i provvedimenti di tutela diretti"
Testo del comunicato
Con nota prot. 17789 del 7 novembre 2014 la Soprintendenza di Pompei formulava un quesito in ordine alla corretta procedura da adottare in seguito alle istanze di privati e enti finalizzate a rideterminare, in presenza di manufatti abusivi, i vincoli diretti, adottati con decreti ministeriali ai sensi della legge n. 1089 del 1939, gravanti sulla collina di Varano.
Tali vincoli risulterebbero particolarmente estesi e non corredati da planimetrie dei resti archeologici, secondo la prassi dell'epoca. La collina di Varano sarebbe interessata nella sua totalità non solo dalla presenza di tre ville monumentali parzialmente riportate alla luce, ma anche da assi viari antichi e numerosi altri rinvenimenti che nel loro insieme testimoniano l'esistenza dell'antica città di Stabiae.
Il Comune di Castellamare, a fronte di numerose istanze di condono, avrebbe manifestato l'intenzione di sottoscrivere un protocollo d'intesa con la Soprintendenza finalizzato a eliminare e/o declassificare i vincoli esistenti, anche ricorrendo all'utilizzo di indagini geoarcheologiche atte a determinare l'esistenza o meno di resti antichi, legittimanti la permanenza dei provvedimenti. Pendono inoltre avanti il Giudice amministrativo una decina di ricorsi per l'annullamento di alcuni dei vincoli, in ordine ai quali la Soprintendenza, con la rappresentanza dell'Avvocatura dello Stato, avrebbe predisposto idonee argomentazioni difensive.
La Soprintendenza chiede a questo Ufficio di esprimersi sulla legittimità della sottoscrizione del protocollo d'intesa, nelle more della definizione dei giudizi amministrativi, nonché sulle iniziative da avviare nell'ipotesi in cui i saggi geoarcheologici diano esito negativo.
In relazione al prospettato protocollo d'intesa con il Comune, si rileva che il dichiarato fine di "eliminare e/o declassificare i vincoli esistenti sulla collina di Varano nel caso di assenza di rinvenimenti archeologici", al fine di semplificare le numerose pratiche di condono, non si concilia con la disciplina di tutela, in quanto proprio lo strumento del vincolo, pur in presenza di numerosi interventi contra legem, appare idoneo a garantire, se non la riqualificazione dell'area, almeno la sua migliore conservazione pro futuro, concorrendo a limitare l'abusivismo dilagante.
Giova rammentare che la presenza del vincolo archeologico non rende ex se inammissibile il rilascio del condono, ma lo subordina esclusivamente al parere favorevole dell'autorità preposta alla sua gestione, in relazione alle specifiche competenze dell'amministrazione stessa. Pertanto, attraverso una gestione oculata, proporzionata e ragionevole del vincolo, in sede di parere rilasciato ai sensi dell'art. 32 della legge n. 47 del 1985, potrebbe ben essere possibile conseguire gli obiettivi dell'amministrazione comunale, di soluzione del problema del condono nelle aree in questione, con la conservazione dei vincoli.
Nella situazione rappresentata pare dunque maggiormente efficace, nonché già sperimentato in alcune realtà locali italiane, un protocollo d'intesa con l'ente territoriale finalizzato a disciplinare in modo coordinato le procedure di condono, mediante l'elaborazione condivisa e predeterminata degli orientamenti e dei criteri applicabili nell'istruttoria delle relative pratiche, al fine di velocizzare e smaltire le richieste di sanatoria edilizia.
Si ritiene inoltre che gli instaurati giudizi a seguito di ricorsi giurisdizionali avverso i decreti di vincolo non ostino all'avvio delle procedure consensuali nei termini dianzi precisati.
A giudizio dello Scrivente pare dunque non opportuno, nelle more dei giudizi, un riesame d'ufficio dei provvedimenti di vincolo, viceversa astrattamente ipotizzabile in caso di richiesta da parte dei soggetti interessati, quali il proprietario, possessore o detentore del bene.
Al riguardo, l'art. 128 del codice di settore, nel confermare, al comma 2, l'efficacia delle notifiche effettuate a norma della legge n. 1089 del 1939, prevede, al comma 3, il rinnovo delle dichiarazioni dei beni oggetto di tali notifiche, al fine di verificare la perdurante sussistenza dei presupposti per l'assoggettamento dei beni medesimi alle disposizioni di tutela, in presenza di elementi di fatto sopravvenuti ovvero precedentemente non conosciuti o non valutati. La norma intende salvaguardare i vincoli già imposti in base alle leggi di tutela precedenti, consentendo tuttavia all'amministrazione di compiere ulteriori attività ricognitive volte a verificare la persistenza delle ragioni giustificatrici alla base del vincolo. Presupposto del procedimento di rinnovo è la "presenza di elementi di fatto sopravvenuti ovvero precedentemente non conosciuti o non valutati", e l'esito del procedimento potrà anche consistere nel mancato rinnovo della dichiarazione per insussistenza dell'interesse culturale, benché la ratio della norma appaia chiaramente conservativa piuttosto che demolitoria.
Nondimeno, la questione va approfondita in relazione alla specificità del vincolo archeologico, caratterizzato normalmente solo dai resti del bene originario, in relazione alla conservazione in situ di alcune testimonianze del più ampio contesto antico.
Secondo l'orientamento giurisprudenziale formatosi ancora nella vigenza della legge n. 1089 del 1939, ai fini della tutela vincolistica su beni archeologici, "l'effettiva esistenza delle cose da tutelare può essere dimostrata anche per presunzione ed è ininfluente che i materiali oggetto di tutela siano stati portati alla luce o siano ancora interrati, essendo sufficiente che il complesso risulti adeguatamente definito e che il vincolo archeologico appaia adeguato alla finalità di pubblico interesse al quale è preordinato" (Consiglio di Stato, sentenza n. 805 del 2005).
Il vincolo può inoltre essere esteso a intere aree in cui siano disseminati ruderi archeologici particolarmente importanti; in tale caso, è però necessario che "i ruderi stessi costituiscano un complesso unitario ed inscindibile, tale da rendere indispensabile il sacrificio totale degli interessi dei proprietari e senza possibilità di adottare soluzioni meno radicali, evitandosi, in ogni caso, che l'imposizione della limitazione sia sproporzionata rispetto alla finalità di pubblico interesse cui è preordinato" (Consiglio di Stato, sentenza n. 5069 del 2005).
La giurisprudenza ha inoltre precisato che "quando si tratta della imposizione del vincolo archeologico, è del tutto ovvio che l'autorità amministrativa ritenga di sottoporre a tutela una intera area complessivamente abitata nell'antichità e solo eventualmente cinta da mura, comprendendovi anche gli spazi verdi, dal momento che le esigenze di salvaguardia riguardano non i reperti in sé e solo in quanto addossati gli uni agli altri, ma complessivamente tutta la complessiva superficie destinata illo tempore all'insediamento umano" (Consiglio di Stato, sentenza n. 522 del 2013).
Più recentemente, la giurisprudenza ha ritenuto "certamente ragionevole ed attendibile, sotto il profilo tecnico e scientifico, la scelta dell 'Amministrazione di vincolare non solo la particella in cui sono esattamente stati ritrovati i reperti archeologici, ma anche tutta la zona ad essa circostante, coincidente con la presunta area di estensione della menzionata villa romana e delle sue pertinenze", in quanto costituisce "nozione di comune esperienza quella secondo cui il ritrovamento di resti di insediamenti di epoche passate in una determinata area rende probabile la presenza di altri resti nelle immediate vicinanze" (Consiglio di Stato, sentenza n. 1557 del 2014). Tale conclusione risulta ancor più avvalorata nelle ipotesi in cui si riscontri una coincidenza tra i luoghi del ritrovamento dei reperti e quelli che, nel passato, sulla base conoscenze disponibili, hanno costituito l'area di sedime di insediamenti di estese dimensioni.
Conclusivamente, nel sito archeologico in argomento, caratterizzato per la sua totalità da resti di varia natura afferenti all'antica città di Stabiae, sembrerebbe poco probabile che eventuali nuove indagini archeologiche conducano all'ipotizzato esito negativo; tuttavia, l'eventuale assenza di dati significativi in determinate porzioni di territorio andrebbe valutata in rapporto non ai singoli reperti ma alla loro appartenenza a un complesso unitario e inscindibile, circostanza che giustificherebbe il mantenimento del vincolo anche in aree non direttamente interessate da resti antichi.
Si rammenta infine la necessità di valutare la significatività dei vincoli archeologici anche sotto il profilo paesaggistico, atteso che, come ampiamente argomentato nel parere di questo Ufficio prot. 8562 del 6 maggio 2011, conforme agli ultimi e innovativi orientamenti giurisprudenziali ivi richiamati, il vincolo archeologico di cui alla Parte II del codice comporta automaticamente la qualificazione dell'area come "zona di interesse archeologico" di cui all'art. 142, comma 1, lett. m) del codice, rendendo direttamente operativo il vincolo paesaggistico, il cui contesto di giacenza può ben estendersi oltre la zona vincolata (seppure tale accertamento vada rinviato alla più appropriata sede ricognitiva).
Il Capo dell'Ufficio Legislativo
Con. Paolo Carpentieri
(in allegato il documento PDF a firma del Capo Ufficio Legislativo)
Documentazione:
Parere del 2 marzo 2016
(documento in formato pdf, peso 231 Kb, data ultimo aggiornamento: 08 marzo 2016 )
© 2021 MiC - Pubblicato il 2020-10-27 22:29:00 / Ultimo aggiornamento 2020-11-02 11:20:08